martedì 19 agosto 2014

TARANTA I RIMEDI CONTRO IL VELENO / / / Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia del 12/08/2014


Cure alternative

Se il ballo è considerato terapia principe per il tarantismo, ciò non esclude ve ne siano altre.
Goffredo di Malaterra scrive di clibanica, ossia dell’uso di un forno (clibanus, appunto) nel quale “infornare” il tarantato (d’uso anche in Sardegna per guarire dal veleno dell’argia e anche, in generale, per risanare i folli).
Alberto d’Aquisgrana che fra il 1125 e il 1158 scrisse l’Historia Hierosolymitanae expeditionis, una cronaca della prima crociata, che, nella piana di Sidone, in tanti, fra i Cristiani, morirono a causa del veleno delle serpi, chiamate tarenta, e che “furono edotti dagli indigeni su come guarire […]. Toccata e circoscritta la ferita di quel pungiglione con la mano destra, sembrava che quel veleno non potesse più nuocere. Similmente impararono un altro rimedio, che l’uomo punto dovesse giacersi, senza indugio, con una donna e la donna punta con l’uomo”. Prosegue poi  sostenendo che per tenere lontani i serpenti si dovevano battere le pietre con colpi frequenti o procurare altro rumore percuotendole sugli scudi così che i serpenti venissero spaventati da questo strepito e i compagni potessero così riposare tranquilli […].
Altro metodo per scamparla consiste in una sorta di “cristalloterapia”: ne scrivono Giorgio Baglivi e George Berkeley, con particolare riferimento ai serpenti. Il primo cita la “pietra indica” che “si trova nel capo del serpente indico, volgarmente Cobra de Cabelo, “che si crede “avere una virtù specificata per estrarre il veleno dalla parte cui fu innestato dall’animale velenoso”. Nel caso specifico il medico apre la ferita e vi pone  le pietre serpentine in modo tale che queste possano assorbire il veleno, una volta assorbitolo si mettono in un bicchiere di latte perché possano poi essere riutilizzate.
Di “pietre serpentine”ci dà notizia anche Berkeley, in particolare egli parla lingua di un rettile pietrificato trovato sull’isola di Malta.
Gianfranco Pivati nel suo Nuovo dizionario scientifico e curioso sacro-profano (1747) scrive che che “[...] dopo l’arrivo di san Paolo a Malta non vi furono più né vipere né alcun altro animale velenoso, e che quegli stessi che vengono portati d’altra parte, non vi possano vivere, particolarmente nel sito dove san Paolo fu morsicato, che è una caverna, dalla quale tutto il giorno vengono portate via pietre per scacciare gli animali velenosi, e per servire da protezione e da rimedio contro le punture degli scorpioni e dei serpenti: né si può dire, che questa sia una proprietà naturale del Paese, perché quando vi capitò san Paolo, gli abitanti avendolo veduto morsicato da una vipera giudicarono che cadesse morto. La cosa dunque deve derivare dalla particolare benedizione di san Paolo estesa su tutta l’isola; e un viaggiatore ci assicura, che vi si veggono dei bambini maneggiare scorpioni senza pericolo [...]”.
Stesso potere di guarire dal morso degli animali velenosi, come le pietre e la terra di Malta, lo aveva l’acqua del pozzo della cappella di san Paolo a Galatina e, non di rado, le serpare, portavano assieme ai vermi ed alle tarantole delle boccette contenenti il miracoloso.


lunedì 11 agosto 2014

TARANTA, IL VELENO DEI MILLE MISTERI / / / Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia del 08/08/2014 (unplugged)


Sintomi del tarantismo

I sintomi del tarantismo sono tanti e generici, e simili a quelli indotti dal veleno dello scorpione, molto spesso il primo caso di contatto col ragno si ha all’inizio dell’estate e poi, ciclicamente, il male ritorna, si guarisce definitivamente solo con la morte della tarantola che ha iniettato il veleno.
Goffredo di Malaterra scrive di rigonfiamento del corpo, così come pure Alberto d’Aquisgrana.
Francesco Berni (1497-1535) nel suo Orlando Innamorato (11.7), descrive in rima segnali e cura: “Come in Puglia si fa contro al veleno / Di quelle bestie, che mordon coloro, / Che fanno poi pazzie da spiritati; / E chiamansi in vulgar tarantolati; / E bisogna trovar un che sonando / Un pezzo, trovi un suon che al morso piaccia; / Sul qual ballando, e nel ballar sudando / Colui, da sé la fiera peste caccia”.
Altre avvisaglie sono malinconia, spossatezza, apatia talvolta accompagnata da febbre violenta...
Ma come fare a capire, di fronte ad una sintomatologia così generica e varia, se c’è stato o meno il morso del ragno? I più pronti direbbero che basterebbe analizzare la ferita, ma questa non sempre è manifesta -ben prima di de Martino, evidentemente, si attribuiva al morso un valore più simbolico che reale-. A questo punto non si può che basarsi sull’esperienza degli specialisti, ossia i musici.
Il barbiere di Nardò Luigi Stifani (1914-2000), medico per antonomasia delle tarantate, basava la sua diagnosi sull’osservazione del paziente. In particolare cercava di capire già dallo sguardo se vi fosse la presenza di veleno, poi se la persona si trovasse in uno stato di eccitazione non comune e, infine dall’“elettricizzazione” (ossia da un movimento continuo) delle dita dei piedi.
Se il mezzo principale per guarire è il ballo, non è rara la presenza, nel rito terapeutico, dell’acqua; questa viene utilizzata in vari modi (una secchiata, l’immersione) ma anche, semplicemente, fatta bere, così come descrive Giuseppe de Dominicis/Capitano Black (1869-1905) nella poesia La tarantata: “Eh, l’arma mia!, la tocca a Galatina, / ca lu Santu cussine è cca ole priatu!... / Quantu rria dhai, stasira o crammatina, se binchia, / se binchia d’acqua e bi’ ca n’ha passatu.” (rid. eh, l’anima mia, deve andare a Galatina, poiché il Santo vuole esser pregato così, giusto il tempo che arrivi lì, stasera o domattina, si riempie d’acqua e vedi che poi tutto passa).
Questo richiamo costante all’acqua ci fornisce lo spunto per una riflessione. Il morso del ragno conduceva il paziente ad uno stato di talassofobia, ossia di rifiuto o di paura dell’acqua. Per associazione di idee, crediamo che il pellegrinaggio alla cappella di san Paolo, debba essere interpretato in quest’ottica, soprattutto alla luce del fatto che si pensava che l’acqua contenuta nel pozzo sito alle spalle della cappella, e murato negli anni Cinquanta per motivi igienico–sanitari, aveva il potere di guarire, provocando il vomito (a questo bisogna aggiungere che le serpare salentine, spesso vendevano delle bottigliette contenenti l’“acqua de santu Paulu” al pari della “Terra di Malta”.
Nota conclusiva Una sintesi dei sintomi e dei danni, talvolta permanenti, prodotti dal veleno tarantolino è data da Achille Vergari, nel suo Tarantismo (1839): “Se le sofferenze prodotte dal veleno delle tarantole non passano del tutto, restano dissesti cronici […] fra gli altri è una particolare malinconia e talvolta stupidezza, la quale dura sino a che il veleno tarantolino o le modificazioni indotte non vengono tolte […]. I fenomeni ipocondriaci dei tarantolati sono: desiderio dei luoghi solitari e dei sepolcri, di stendersi sui feretri a guisa dei morti, e di gettarsi nei pozzi. Le donne sogliono perdere la verecondia facendo delle cose oscene. Altri amano rotolarsi nel fango; altri trovano diletto nell’essere battuti, altri nella corsa a salti, da cui la definizione di morbus saltatorius. I colori spiegano diverse azioni sui tarantolati, piacevoli e sgradevoli, sino a farli divenire furiosi”, per quanto riguarda la ciclicità del fenomeno e la particolare sensibilità ai suoni, Vergari continua scrivendo che “I tarantolati, dopo essere guariti dall’acuzie morbosa, sogliono restare per qualche tempo malsani e, soprattutto, in una specie di vacuità. […]. Tutti i tarantolati, nel tempo della stagione calda, nonostante fuori dalle sofferenze, nell’accordo degli strumenti musicali sentono grate ed eccitanti emozioni.
I tarantolati dopo il parossismo non ricordano ciò che hanno fatto, non più appetiscono quel che desideravano, e paiono destati da profondo sonno o delirio”.



Rettili, scorpioni e ragni

Probabilmente per loro valenza ctonia, i rettili, gli scorpioni ed i ragni sono da sempre stati considerati appartenenti alla stessa specie, generati dal grembo della grande madre terra, così come narra Nicandro di Colofone, autore greco del II secolo a. C. nelle Teriache: “I rettili e i falangi dannosi, così come le vipere e gli innumerevoli esseri che sono gravame della terra, derivino dal sangue dei Titani”, feriti nella battaglia contro Zeus.
Alberto d’Aix (XII sec.), riferisce che durante la prima crociata, trovatosi l’esercito cristiano nei pressi di Sidone, venisse attaccato da una schiera di serpenti, chiamati Tarenta e che in molti, fra i feriti, “perissero a causa dell’agitazione e per una sete insopportabile” a causa del veleno di questi animali.
Ma se erano tarantole (tarenta), perché chiamarli serpenti e non invece ragni? Probabilmente perché  serpente, dev’essere interpretato alla maniera latina di serpo, serpis, ossia strisciare da cui serpens, –entis inteso genericamente come “strisciante”.
In tempi più recenti e in Italia, Francesco Cancellieri in una celebre Lettera sul tarantismo e sull’aria di Roma (1767), avvisa il destinatario, Dott. Koreff, di stare attento a non confondere la tarantola lucertola con la tarantola ragno, ma c’è anche l’esempio, di molto antecedente, di Niccolò Perrotti di Sassoferrato (1430-1480).
A questo bisogna aggiungere che, come fa notare in un interessante articolo Massimo Pittau, “in varie zone della Penisola e anche in Corsica col nome di tarantola si intende il geco o stellione [...] ma anche lo scorpione”.
Si arriva così nella Terra d’Otranto, dove l’accomunanza (o fusione), è testimoniata nel dialetto leccese da scarpiune che identifica il ragno mentre, lo scorpione vero e proprio, come specifica Antonio Garrisi nel Dizionario Leccese-Italiano, si chiama scarpiune cu lla cuta (scorpione con la coda).
Particolarmente interessanti, ai fini di dimostrare l’equivalenza fra rettili e ragni, nel tarantismo e più in generale nella cultura popolare, ci paiono due testimonianze raccolte da Luigi Chiriatti in Morso d’amore ossia quella del medico delle tarantate Luigi Stifani il quale afferma che gli è capitato “di suonare anche per 15 giorni di fila, a un certo Aurelio di Galatone, pizzicato da una biscia” e poi, ancora, quella di Maria di Uggiano La Chiesa, la classica “comare di paese” che racconta di un uomo che, mentre andava a raccogliere il tabacco, si trovò di fronte ad un “animale nero, come biscottato, tutto scaglie, ma grosse, come una specie di grosso serpente. Allora questo serpente ha alzato la testa per lanciarsi, e questo povero cristiano prese un ramo per colpirlo. Il serpente lo fiatò su tutte le parti scoperte. Dopo che se ne ritornò a casa, mani e viso erano gonfiati”.
Maria parla, all’inizio, di un indefinito animale nero, tutto scaglie. La descrizione pare quella di una scolopendra (che può essere rossa o scura), nota nel Salento come tagghiafuerfeci (tagliaforbici) ma anche, più genericamente, scarpiune (scorpione). Se così fosse il cerchio si chiuderebbe e ci troveremmo di fronte ad una ulteriore testimonianza di come tutti gli esseri serpenti, nel senso di striscianti, possano essere accomunati.
           


giovedì 7 agosto 2014

Puglia e Taranta, storia secolare / / / Articolo apparso su Nuovo Quotidiano di Puglia di lunedì 4 agosto 2014

La tarantola di Puglia (unplugged)

Ernesto de Martino (1908-1965) rimane talmente colpito dalla descrizione degli incresciosi effetti causati dal morso della taranta fornita da Leonardo da Vinci (1452-1519) da ritenerla degna di aprire La terra del rimorso (1961). A detta dello scienziato toscano, quel ragno, inoculando il suo veleno nell’uomo, mantiene lo sventurato “nel suo proponimento, cioè quello che pensava quando fu morso”. Questa era una credenza molto rinomata fra il XV e il XVI secolo, e trova un’illustre precedente annotazione nell’Opus de venenis (composto fra il novembre del 1424 ed il maggio del 1426, ma pubblicato per la prima volta in Venezia nel 1492) di Sante Ardoini. Il medico pisano, descrive gli “accidenti” causati dalla punzione, da quelli comuni, inappetenza, dolore di stomaco, vomito a quello più singolare, ripreso poi da Leonardo da Vinci, che vuole che fino a quando il veleno non è espulso dal corpo, il malcapitato rimanga nello stesso stato d’animo in cui si trovava al momento del fatto. Da segnalare anche ciò che è scritto in una delle opere maggiori di Niccolò Perrotti arcivescovo di Sassoferrato (1430-1480), Cornucopiae sive latinae linguae commentarii; qui l’autore si premura di specificare che ci sono due tipi di tarantole, una rettile, lo Stellione, e l’altra, più propriamente della Puglia, che è invece un ragno, e che, se si è pizzicati da quest’ultimo, si può anche morire. Sarà poi Girolamo Mercuriale (1530-1606) nel suo Libro sui veleni, a descrivere più approfonditamente le conseguenze del morso del falangio di Puglia, simili a quelle causate dal morso dello scorpione e ne ribadisce la “solita” peculiarità: “quando morde uno, quello rimane nello stato e nel modo di fare in cui è stato punto finché il veleno non è stato espulso dal corpo, così che se punge qualcuno che cammina, quello camminerà sempre, se sta saltando, sempre salta, se sta ridendo sempre ride”, aggiungendo che “i rimedi per questo veleno sono da ricercarsi presso gli abitanti della Puglia”.
Basterebbe questo per legare la tarantola e tarantismo alla Puglia, ma ci sono anche voci discordi, come quella del medico Francesco Serao (1702-1783) che, nelle sue Lezioni accademiche sulla tarantola (1742), ritiene improbabile finanche accostare il solo nome del ragno a Taranto, liquidando tale etimologia come incolore. Probabilmente, se volessimo pensar male, egli muove questa obiezione più per spirito di critica verso i suoi predecessori e, in particolare, verso il suo predecessore Giorgio Baglivi (1688-1707) il quale sostiene che “si chiama tarantola non perché questo animale sia più velenoso in Taranto che negli altri paesi della Puglia, ma solo perché al tempo dei Greci e dei Romani quella città era o più frequentata delle altre, o più nobile, e però trovandosi in maggior numero malati afflitti da questo veleno, questo animale trasse dunque il suo nome” (De Tarantula. Dissertatio VI. De Anatome, morsu et effectibus -1695-, nella traduzione di Raimondo Pellegrini).
Probabilmente era sfuggito, al Serao, che già Goffredo di Malaterra nel De rebus gestis Rogerii... (1100 circa) associa il nome di taranta alla Puglia. Infatti, l’esercito normanno, che nel 1064 si accampa sul monte Pellegrino e viene molestato da questi ragni, proveniva dalla Puglia.
Senza contare poi che, fra il XVI e il XVII secolo, l’aracnide diviene identificativo della regione, tanto che Cesare Ripa (1555-1645), immagina nella sua Iconologia (1593) “la Puglia come una Donna di carnagione adusta che, vestita d’un velo sottile, abbia, sopra d’esso, alcune tarantole, simili a ragni grossi […] starà detta figura in atto di ballare” a questo aggiunge che avrà, al suo fianco, “diversi strumenti musicali e, in particolare, un tamburello ed un piffero”. Poco più avanti egli giustifica la presenza delle tarantole di diversi colori sul vestito della donna poiché “animali noiosissimi e unici in questa Provincia”, attribuendo a seconda del colore del ragno “diversi e strani accidenti” nel malcapitato che dovesse incorrere nel loro morso e, la presenza degli strumenti perché il veleno di questi animali si mitiga e si vince con la musica dei suoni […]”.
Abbiamo visto quindi che, almeno dall’XI secolo, la tarantola è legata alla Puglia e a Taranto.