mercoledì 29 dicembre 2010

La terra del rimorso e l’errore di interpretazione


Ernesto De Martino compie, in La terra del rimorso (1961, da qui in avanti tdr), una operazione speculativa che ha innescato un processo irreversibile, contribuendo ad esaltare, su basi scientifiche estremamente discutibili (il lavoro è viziato da lacunosità palesi specialmente sul piano bibliografico, ma non solo), un fenomeno che, nella Terra d’Otranto, trovava, nella vita di tutti i giorni, uno spazio marginale: mi riferisco al tarantismo.
Gli studiosi indigeni, anziché ritenere tale lavoro un punto di partenza, qualora ce ne fosse stato bisogno, per gli studi sul tarantismo, un po’ per pigrizia, molto spesso per incapacità, hanno preferito allinearsi a posizioni trapassate e che, come si diceva, non hanno un minimo di scientificità  (inutile sottolineare come, in questo disastro, abbia contribuito l’accademia che, coi soldi dei cittadini, ha pubblicato, accanto a ricerche serie, anche scritti fantasiosi); spero di non apparire blasfemo ma, La terra del rimorso, appare, più che una pietra miliare, un libro sacro, non criticabile e che non necessita di alcuna verifica.
Eppure, non ci vuol molto (a chi fa il ricercatore)  a dimostrare che  il trinomio Galatina-San Paolo-Tarantismo altro non è che un’invenzione sette-ottocentesca, così come evidenzia lo storico Mario Cazzato (che non è sicuramente specializzato in etnomusicologia) in un saggio filologicamente ineccepibile e ricco di fonti bibliografiche poco conosciute dal titolo Da San Pietro a San Paolo. La cappella delle “tarantate” a Galatina (2007).
Certo si potrebbe trovare la giustificazione nel fatto che l’equipe demartiniana ha ristretto il proprio campo a

tutti coloro i quali, nell’estate del ‘59, erano coinvolti in una vicenda che li caratterizzava come “tarantati” presso la gente del luogo e partecipavano alla ideologia della cura del morso della  cura del morso della taranta mediante la musica. (…) Dal 28 al 30 giugno, cioè nei giorni della celebrazione festiva di Galatina, furono così identificati in cappella 35 tarantati, fra i quali ne furono scelti a caso 19 da visitare nei loro paesi di provenienza. (tdr, p. 43)

A tale affermazione, che trova la sua giustificazione nella delimitazione della ricerca dal punto di vista spaziale (Galatina, cappella di san Paolo), temporale (dal 28 al 30 giugno del 1959) e quantitativa (19 tarantati), nessun seguace di de Martino ha dato il giusto peso, facendo passare per scontato che il male del tarantismo e la sua guarigione fossero storicamente legati ad un incontro fra cristianesimo, inteso come religione unificante e stabile, e cultura popolare.
Sarebbe in realtà bastato leggere a random gli scritti dei viaggiatori stranieri e degli storici locali inerenti gli usi e i costumi di Terra d’Otranto e della Puglia –con particolare riferimento al tarantismo– per rendersi conto di quanto rari siano i riferimenti a Galatina ed a san Paolo, non solo, ci si accorgerebbe di quanto è raramente citata anche solo la guarigione per intercessione dei santi: una ulteriore dimostrazio che il binomio tarantismo-religione (quantunque popolare) fosse un fatto “di nicchia”.
La mancanza di attenzione verso i diari dei viaggiatori stranieri e degli storici locali trova giustificazione demartiniana nel fatto che tali rappresentazioni fossero considerate poco più che “impressionistiche”

Quanto ai libri di viaggio ve ne sono alcuni, come p. es. quello di C. A. Meyer e il famoso Corricolo di Alessandro Dumas, che contengono senza dubbio impressioni talora fresche sul cattolicesimo popolare e sulla bassa magia cerimoniale, ma al più si tratta di documenti da utilizzare con le dovute cautele, di “reazioni” del viaggiatore straniero di fronte alla realtà meridionale, e di giudizi “impressionistici”. (tdr p. 29)

Con tale ufficiale esclusione, De Martino non sbaglia mira: tali scritti, non sono funzionali allo scopo della ricerca, in ogni caso, prima di escluderli, deve pur sempre averli letti.
Se poi paragoniamo le storie raccontate e analizzate in La terra del rimorso, ci rendiamo conto di quanto queste appaiano simili a quelle rappresentate nei diari “impressionistici”, solo che, nel libro demartiniano, c’è il legame con san Paolo.
Nulla toglie che una serie di eventi fortunati abbia portato de Martino e la sua equipe ad imbattersi in casistiche così ampie nel giro di pochi giorni (cromoterapia, musicoterapia, tarantismo umido, tarantismo secco e così via...) e che quindi fossero effettivamente all’oscuro di quanto precedentemente scritto da altri.
Se così fosse, la tesi secondo la quale quei diari erano impressionistici verrebbe ribaltata o, al contrario, La terra del rimorso, nulla sarebbe se non uno scritto “impressionistico”.
Tuttavia, quello che più dovrebbe far riflettere è la parte riguardante l’innesto del tarantismo col clero locale; a questo de Martino attribuisce la causa principale del decadimento del fenomeno

Il clero locale, nel suo tentativo di innestare il tarantismo nel culto di San Paolo, aveva amputato coattivamente il tarantismo dell’esorcismo musicale, escludendo i “suoni” dalla cappella di Galatina, e ottenendo non già l’impossibile innesto, ma la disgregazione del fenomeno culturale e la sua riduzione all’aspetto “crisi”: occorreva ora sottrarlo in primo luogo dalla cappella, poiché per un tarantismo così “ridotto” la sede più adatta non era la cappella ma l’ospedale o la clinica neuropsichiatrica. (tdr p. 380)

Anche questa è una considerazione sua personale e facilmente contestabile e ribaltabile.
E se invece il clero, fosse stato effettivamente considerato per ciò che era, cioè elemento conservatore e non distruttore delle credenze popolari? La risposta sarebbe semplice: sta proprio nell’innesto la sopravvivenza di un fenomeno che, già allora, andava concludendosi.

 È possibile affermare che nella stagione del ‘59 i tarantati nel Salento non saranno stati complessivamente molto al di sopra delle 100 unità. (tdr, p. 44)

Se effettivamente, e non c’è motivo di dubitarne, le unità tarantate erano limitate a 100,  così come affermato, vuol dire che il fenomeno era estremamente marginale, considerato il fatto che la popolazione della provincia di Lecce, nel 1961, due anni dopo la discesa di de Martino contava 678338 abitanti.
Sergio Torsello, intellettuale salentino rileva che

L’apparizione de La terra del rimorso, è bene tenere conto, passa pressoché inosservata al mondo intellettuale locale. Bisognerà aspettare gli anni del folk revival (che nel Salento trova il suo statuto fondativo con il celebre disco del Canzoniere Grecanico Salentino del 1976), perché i temi della musica e della cultura popolare (e quindi anche il tarantismo) siano immessi lentamente nel circuito del dibattito locale (Gabriele Mina - Sergio Torsello, La tela infinita. Bibliografia degli studi sul tarantismo mediterraneo 1945-2004, Nardò 2005, pag. 16).

Visti i dati di cui sopra, non c’è da meravigliarsi più di tanto se gli intellettuali locali dell’epoca non presero in considerazione tale scritto. Al massimo ci si dovrebbe meravigliare di come oggi tutto ruoti attorno a tanta fumosità.
Questione di mancanza di studi? Questione di moneta? Non è compito mio, che sono fuori da certi giri,dare risposte.
Non posso comunque dare torto ad Eugenio Imbriani, docente presso l’Università del Salento e direttore della collana “Biblioteca sul tarantismo” quando afferma che

Le manifestazioni folkloriche si sono trasformate in gran parte in operazioni di tipo turistico-gastronomico, e che gli epigoni del mondo tradizionale (definiamolo ancora così, malgrado i dubbi sulla sua reale esistenza) sono più facilmente riconoscibili in termini di deprivazione culturale, di ignoranza, non sarebbe una cattiva idea proporre, con una punta di moralismo, certamente, la cultura come valore. (Eugenio Imbriani, Nel paese delle livree. Folklore in frammenti, Lecce 1990). 

lunedì 27 dicembre 2010

"Le putèi te mièru". Una singolare ricerca etnologica nella Lecce di fine anni Settanta

Le putèi1 te mièru
Una singolare ricerca etnologica
nella Lecce di fine anni Settanta
di Anna Rita Bruno, Vito Ingrosso, Adriano Marotta

Il limite della storiografia contemporanea (compresa quella etnologica, antropologica, etc.) consiste nel considerare l'analisi del fatto più importante del fatto stesso: ecco dunque la pubblicazione di mattoni che analizzano il fatto, senza descrivere l'oggetto analizzato.
Tale scientificamente infondato metodo di proposta scaturisce dalla convinzione che l'analisi sia oggettiva, mentre il racconto, giocoforza, soggettivo e riduttivo -quante volte, a scuola ed all'università, i docenti rimproverano agli alunni di limitarsi a raccontare il fatterello, senza alcuno spirito critico?-; narcisismo e ignoranza fanno poi il resto, così come l'autorevolezza (conferita quest'ultima dall'accademia anche a fronte di pubblicazioni fantasiose) dell'autore.
Da diversi anni svolgo ricerche sulla canzone leccese ed ho sempre preferito, per quanto possibile, narrare il fatto, lasciando al lettore che ne avesse voglia o necessità di approfondire ed eventualmente analizzare quanto raccontato.
Quello che segue è un articolo apparso su “Rassegna salentina” nel 1977, ma è soprattutto una testimonianza storica di una Lecce che già a metà degli anni Settanta del secolo scorso andava scomparendo; un racconto sulle putèi te mièru, che oggi non esistono più e che invece avevano una incidenza importante sulla società leccese (ma erano diffuse anche nei paesi limitrofi).
Il modo di scrivere degli autori è scorrevole e, non di rado, pare di entrare nella putea, riuscendo a carpirne gli odori e ad ascoltarne le voci.
Quello che più mi ha colpito dello scritto è che è una vera e propria relazione, scaturita da un lavoro sul campo e a tavolino (bella anche la divisione in tre parti: relazione, luoghi visitati, ricette).
Mi sono permesso di trascriverla, annotarla e pubblicarla.
Federico Capone (27/12/2010)

Le “putee” di Lecce2

Nel centro storico di Lecce e nelle sue immediate vicinanze sopravvivono alcuni locali caratteristici chiamati nel nostro dialetto putee3 e adibiti alla vendita del vino e di alcuni piatti tradizionali a base di carne.
Questi locali si animano prevalentemente di sera e ripropongono rapporti arcaici, ormai scomparsi in altri luoghi di ritrovo. Il vino è il denominatore comune di tutte le attività della putea.; intorno ad esso troviamo tutta una tipologia di avventori affezionati: da quelli che preferiscono sedersi al tavolo ed insieme al vino assaggiare qualche pezzettu di carne di cavallo o qualche gnemmarieddhru4 di trippa, a quelli che si fermano presso il bancone a bere vino accompagnandolo con taralli e uova sode, a quelli infine, che si fanno solo lu mienzuquintu5. Spesso c'è anche chi mangia fettine o li pezzetti di cavallo nelle rosette di pane. È legato a questi ambienti anche l'uso delle carte napoletane con cui si gioca generalmente lu tressette, la scupa, la briscula.
Di solito la putea è situata in un unico grande locale a pianterreno. L'arredamento tipico consiste in un bancone, alcuni tavoli con sedie o scanni, e in una fornacetta o cucina economica. Il bancone è, quasi sempre, in pietra rivestito sui lati da piastrelle bianche e, superiormente, da una lastra di marmo in cui è inserito il tipico lavandino in rame (spesso il lavandino è ricavato nella stessa pietra del banco o foderato da piastrelle bianche). Sulla lastra di marmo trovano posto i boccali smaltati con cui si usa ancora servire il vino, e i bicchieri di vetro poggiati a sgocciolare in un grande piatto in ferro smaltato (non è più in uso lu cuperchiu de piatta: disco in terracotta con fori usato dai vinai come scolabicchieri).
È caratteristica di ogni putea la vetrinetta, posata su un angolo del banco, in cui sono esposti i piatti freddi: uova sode, pesce fritto, ecc.
Normalmente vicino al banco si trovano li capasuni in creta e le utti contenenti il vino; nella stessa stanza, non lontana dal banco, è quasi sempre situata la zona cucina, che consiste in un cucinino a gas posto su un tavolino. È ormai rarissimo trovare qualche cucina economica a carbone, una volta assai diffusa. È ancora in uso, invece, appendere al muro le pentole e le padelle. I vecchi scanni di legno senza spalliera sono stati sostituiti da comuni sedie, in ferro e fòrmica e, spesso, li si trovano accantonati in un angolo.
Gli oggetti e gli arredamenti di una volta erano in terracotta (brocche, piatti), in legno (scanni, tavoli), in ferro smaltato e vetro, ma questi materiali sono stati quasi del tutto soppiantati dalla plastica e dalla fòrmica. Stessa sorte hanno avuto le fornacette a carbone, smantellate e sostituite dalle cucine a gas.
Intendiamo sottolineare questo fenomeno come deleterio, non per fare il lamento del purista, ma per far notare il nocivo, secondo noi, influsso di certi modelli di progresso per cui alcuni oggetti sono stati sostituiti in funzione di una certa comodità, non bilanciata da un'adeguata comodità.
Artigiani, bottegai, operai, sono gli abituali frequentatori di questi locali; le putee permettono loro di rimanere legati a certe tradizioni profondamente diverse da quelle dei nuovi ritrovi (bar, sale da gioco, discoteche).
Si chiacchiera, ci si sfida a carte, si beve, si mangia un boccone attorno ai tavoli o appoggiati al bancone e si dimenticano il lavoro e i problemi quotidiani in compagnia degli amici6.
Quasi tutte le pietanze servite nelle putee sono ormai in disuso o addirittura scomparse dalle tavole delle famiglie, dalle trattorie e dai ristoranti e si possono trovare solo in questi locali. È da dire comunque che nelle putee il cibo è più un pretesto per bere e accompagnare il vino che per soddisfare una vera e propria fame.
Tra i piatti caldi il più caratteristico è quello dei pezzetti: pezzi di carne di cavallo al sugo. Molto saporiti sono anche gli altri piatti quali: gli gnemmarieddhri, particolari involtini ricavati dalla trippa; il fegato di maiale cotto in tegame con la cipolla o arrostito con la zzippa; le fettine di carne di cavallo arrostita alla brace; la trippa a tocchetti, cotta nella propria acqua; le polpette di carne di cavallo, prima fritte e poi cotte nella salsa di pomodoro; gli involtini di carne ripieni di mortadella, uova sode, aglio, prezzemolo tritato; la matriata, budello del vitellino da latte e infine la salciccia di maiale, generalmente arrostita.
I piatti freddi esposti nelle vetrinette sui banconi sono: pesce fritto (sarde o pupiddhri); calamari fritti; polpo lesso; pittule, pezzi di baccalà impastati nella pasta lievitata e fritti; lingua di vitello lessata; muso di maiale lesso, cioè una parte della testa del maiale lessata e condita con limone, sale e pepe. E ancora poi peperoni arrostiti, melanzane arrostite con l'aceto e la mentuccia, filetti di alici all'olio serviti assieme ai carciofini sott'olio. Il muso e i pezzetti possono essere gustati stando in piedi, presso il banco o, come si usa dire alla furcina.
Spesso nella vetrinetta è anche posto il caratteristico boccaccio in vetro dei taralli e la coppetta con le uova sode.
In questi ultimi anni le putee sono state emarginate dal contesto della vita attiva. Come già abbiamo detto la loro natura è stata superata da altri ritrovi. Tuttavia riscontriamo un rinnovato interesse dei giovani nei confronti di questi locali, ove sono attirati dalla possibilità di avere nuovi contatti umani, di fare nuove esperienze, di avere un rapporto diverso col cibo e di provare dei piatti leccesi ormai in disuso presso le famiglie. Inoltre, e non è poco, il prezzo delle consumazioni, se così vogliamo chiamarle, è molto contenuto.
A questo punto, crediamo necessario, perché non si falsino i motivi e i fini del nostro interessamento per le putee, spiegare che il nostro non vuole essere un discorso di élite, in cui la putea si riduce ad un oggetto di studio; in poche parole, non ci interessa un recupero di questi locali a livello di riscoperta in chiave consumistica, così come di moda oggi.
Il nostro intento è stato solo di descrivere questo mondo così come è. Con la speranza che l'eventuale partecipazione non diventi una ricerca di emozioni epidermiche (il turismo consumistico alla ricerca del buon selvaggio insomma!). La putea, secondo noi, non è qualcosa che si possa sfruttare turisticamente sul centro storico -che molte volte nascondono fini poco chiari- si inserisse anche il discorso delle putee, sfatando il pregiudizio che le vuole luogo di riunione per ubriaconi e perdigiorno7.
A conclusione di questo breve articolo riportiamo l'elenco delle putee che abbiamo visitato8 con i cibi che in esse si possono trovare. In esso alcune putee hanno come indicazione solo la via, non avendo esse un nome specifico. L'elenco è completato da due cartine rappresentanti due zone del centro storico leccese in cui sono segnalate le putee più conosciute e più caratteristiche. Infine, ci è piaciuto inserire le ricette di alcuni dei piatti che si possono mangiare in questi locali.

Putee del centro storico:

  1. Totu – vico de' Creti – si mangia: matriata, pezzetti, muso di maiale, trippa, gemmarieddhri, melanzane.
  2. Egidio – corte dei Morisco – si mangia: muso, calamari, pezzetti, melanzane. Sant'Antonio te inthra (v. piantina A, n. 2).
  3. Fangiscu – vico dei Guidoni – si mangia: fegato, pezzetti, fettine di cavallo arrosto. È l'unico ad usare ancora la cucina a carboni. Si mangia in piedi. Possibilità di chiedere vino vecchio. Arretu a San Matteu (v. piantina B, n. 4).
  4. Corte dei San Blasio – si mangia: trippa, alicetti, pezzetti. Arretu allu Mmamminu (v. piantina B, n. 4).
  5. Totu – si mangia: pezzetti, calamari fritti, polpette, melanzane sott'olio . Scalinata interna che porta in un vasto scantinato. Vico Panevino, 12 (v. piantina B, n. 5).
  6. Via Gualtiero di Brienne – si mangia: polpo lesso, affettati, pezzetti.


Fuori dalle mura troviamo:

  1. Ninu – si mangia: muso, uova, pittule, pezzetti. Si mangia in piedi. Mercato Porta Rudiae.
  2. Nzinu – si mangia: sarde fritte, polpi, uova, salsicce, polpette, pezzetti. Via Salvatore Stampacchia, 58 – Fore porta Rusce.
  3. Scuacquitti (ex) – si mangia: pezzetti, pesce fritto, peperoni arrostiti. Via Marco Aurelio, 10.
  4. La Signurina – si mangia: salsiccia, pezzetti, polpette, fegato, carne di cavallo. Via Orsini del Balzo, 32 (San Pascali).
  5. Via Leuca – si mangia: lingua, pezzetti, fegato, carne di cavallo.
  6. Corte de' Fiori – si mangia: involtini, pezzetti, carne arrosto.
  7. De Matteis – si mangia: pezzetti, pesce fritto, pittule. Si notano ancora alcuni tavoli e scanni in legno. Via Orsini Ducas, 2.
  8. Via San Cesario – si mangia: pezzetti, melanzane, uova, formaggio. Si mangia in piedi.
  9. Viale A. Marconi.


Ricette:

PezzettiIngredienti: carne di cavallo (di secondo taglio: pancetta, muscolo o piscitello) tagliato a tocchi. Per il sugo: cipolla, peperoncini, salsa, olio, sale e pepe. Si sistemano nella pentola l'olio e la cipolla tagliata a listarelle sottili, sale, un pezzetto di peperoncino tiaulicchiu, e i pezzetti. Cuocere finché la cipolla non si è consumata, aggiungendo unpo' d'acqua man mano che occorre. Indi aggiungere la salsa e continuare a cuocere fino ad avvenuta cottura della carne.

PolpetteIngredienti: carne macinata, formaggio sardo, pangrattato, uova, sale. S'impasta la carne col pangrattato, il formaggio, l'uovo e un po' d'acqua. Quando il tutto è ben amalgamato si formano le polpette e si friggono. Infine si mettono nella salsa e si cuocciono insieme.

GnemmarieddhriIngredienti: centopezze (parte interna della trippa), formaggio piccante, pancetta a tocchetti, cannulu (parte terminale dell'intestino), cipolla, prezzemolo, un po' di pomodoro). Si stende sul tavolo la centopezze, si taglia a quadrati e in ognuno di essi si mette un po' di formaggio, di pancetta, di cannulu, di cipolla tritata, di prezzemolo e di pomodoro e si cuoce il tutto. Si mettono gli involtini così formati nella pentola con pochissima acqua e qualche pezzetto di sedano. Cuocere per circa mezz'ora.

Matriata (bodello del vitellino da latte) – Ingredienti: matriata, alloro, aglio, sale, olio. La matriata va lavata con acqua e limone e tagliata a pezzetti di lunghezza variabile. Bisogna precisare che tagliando il budello (dopo il lavaggio) si deve eliminare quasi del tutto l'eventuale grasso e conservare il sugo secreto dal budello durante il taglio. Tale sugo servirà per la cottura. Sfumare l'olio con l'aglio. Togliere l'aglio e mettere la matriata, insieme al proprio sugo, con due foglie d'alloro. Salare e cuocere a fuoco lento aggiungendo, se necessario, dell'acqua man mano che si consuma il succo e così via finché la matriata non è cotta. Oltre che con l'acqua la matriata si può cuocere tirandola con il vino.

Fegato - Ingredienti: fegato di maiale tagliato a pezzetti, sale, pepe e alloro. Avvolgere i pezzetti di fegato nella zippa, cioè la membrana trasparente che avvolge il fegato, dopo averli salati e pepati. Infilare i vari pezzetti nello spiedino alternandoli con foglie di alloro ed arrostire sulla brace a fuoco lento.


Anna Rita Bruno
Vito Ingrosso
Adriano Marotta
1 In realtà sarebbe più corretto, al plurale, dire putee (come in effetti fanno gli autori dell'articolo) e non già putei.
2 Apparso col titolo Le putee di Lecce su “Rassegna salentina”, Anno II n. 5 – settembre-ottobre 1977, di Anna Rita Bruno, Vito Ingrosso, Adriano Marotta.
3 Secondo gli autori il termine putea deriverebbe dal verbo latino poto -as, potare=bere. In realtà è più probabile che derivi dal latino apotheca che significa bottega (i.e. putèa te fierru = bottega del fabbro). In greco apotheka vuol dire farmacia.
4Involtini di carne, si veda la ricetta più avanti.
5Unità di misura pari a 100 ml.
6 È bene ricordare un verso di uno dei cavalli di battaglia del grande interprete della canzone dialettale leccese Bruno Petrachi: “quanti bicchieri te mièru me biu tanti pensieri te càpu me llèu” (da Mièru là là)
7 Da “a questo punto...” fino a “...ubriaconi e perdigiorno” è una affermazione polemica ed importante, poiché ci fa comprendere come, già all'epoca, si assisteva a fenomeni di spettacolarizzazione della tradizione (ancora forse non si era arrivati ad inventarla, come invece accade oggi) a fini commerciali. Anche negli anni Settanta il buon selvaggio era capace di attrarre turisti.
8 Da qui si capisce che più che un articolo è stata una vera e propria ricerca sul campo.

mercoledì 22 dicembre 2010

Il teatro dialettale leccese: Raffaele Protopapa


Sarebbe riduttivo, in un lavoro dove si parla di leccesità, non fare almeno un cenno al teatro dialettale che, a scanso di equivoci, non è teatro di colta accademia, di richiami a grecità remote e orientato, per mezzo dello sperimentalismo, verso un futuro altrettanto remoto.
Non è teatro “impegnato”, dunque. Ma ha sicuramente avuto più spettatori di quanti ne abbia mai registrati la cosiddetta commedia colta.
Quando si parla di teatro dialettale leccese il pensiero corre immediatamente a Raffaele Protopapa che, con Giuseppe De Dominicis, è il più noto autore salentino di tutti i tempi.
Nato a Lecce nel 1907 e morto alcuni anni addietro, seguì fin dall’adolescenza, la sua vocazione per il teatro, cominciando ad esibirsi come attore, in ruoli comici, al circolo “Giosuè Borsi”.
Fin dall’inizio Protopapa fu colpito dal calore con il quale il pubblico accoglieva le poesie dialettali del De Dominicis e del Bozzi da lui recitate. Successivamente, grazie all’incoraggiamento del pubblico, intensificò l’impegno: nacquero così le prime piéce, le prime commedie in due o tre atti, in questo sollecitato dalla moglie che, insegnante elementare, aveva bisogno di testi per coinvolgere i ragazzini in iniziative didattiche in occasione del Natale, del carnevale, etc.
La stampa, in un primo momento molto disattenta, iniziò a prendere atto del “fenomeno” del teatro salentino solo negli anni Sessanta;da allora inizia anche il rilancio del dialetto quando ormai già la radio e soprattutto la televisione, avevano operato la massificazione del linguaggio.
Sempre in quegli anni comincia l’attività del “Piccolo teatro”di Mario Durante.
Cosa sia il teatro di Protopapa è lui stesso a dirlo, in una dichiarazione rilasciata pochi mesi prima di morire: “Esso è ispirato a scene di vita popolare e trova la sua naturale collocazione in quello tradizionale o, se si vuole, di evasione, che per me resta teatro senza bisogno di aggettivi.
Questa affermazione non deve fare intravvedere una mia avversione alle innovazioni in campo teatrale -aggiunge-.
Apprezzo ed ammiro l’impegno di coloro i quali si cimentano nell’opera di rinnovamento del teatro; sempre che lo facciano per migliorarlo e non per strumentalizzarlo ad altri fini, come spesso avviene.
L’esperienza mi ha consentito di collaudare le mie opere, sottoponendole al giudizio degli spettatori, non solo di quelli del circolo “Giosuè Borsi”, ma anche di quelli più esigenti dei grandi teatri di Lecce e del Salento”.
Nelle opere del Protopapa, l’umorismo, spontaneo ed immediato, mai studiato e privo sempre di scurrilità, la fa da padrone e l’ilarità che suscita, sottolineata dagli applausi degli spettatori, è dimostrazione del notevole feeling tra autore e pubblico, grazie soprattutto alla parlata dialettale.
“Il teatro di Protopapa -afferma Mario Schiattone- è ormai entrato nella tradizione;non si può risalire ad altre forme del teatro nel Salento se non in modo episodico.
Il dialetto rusciaro, ammorbidito per una più ampia possibilità di comprensione da parte del pubblico, è anche imborghesito, come dice lo stesso commediografo”.

domenica 5 dicembre 2010

"E già, così vanno le cose...", apparso su Paese Nuovo del 05/12/2010


Un bando sparagnino

Qualche settimana addietro ho partecipato ad un Pon dal titolo “Fabbricante d’armonia”, indetto dall’Istituto Comprensivo di Corigliano d’Otranto: trenta ore di lezione, pagate ottanta euro l’una, per un totale lordo di 2400 euro.
I titoli richiesti erano al contempo fantasiosi ed originali: laurea in lettere con “indirizzo etnico-musicale” ed “esperienza nella direzione di orchestre popolari”.
Premetto che, a quanto ne sappia, “corsi di laurea in lettere con indirizzo etnico-musicale” in Italia non ne esistono e questo primo profilo d’accesso al bando rientra nell’ambito della fantasia; l’originalità sta nella seconda specifica: “esperienza nella direzione di orchestre popolari”. Ora, senza scendere nei particolari e discutere su cosa sia “popolare” o “colto”, non si può non notare come, sul territorio nazionale, queste formazioni non superino la decina e i loro direttori siano ancora meno.
Al Pon si sono presentati sei concorrenti. Cinque di questi non sono stati neppure considerati degni di essere valutati “per mancanza del requisito di ‘direzione orchestre popolari’”, ed io fra questi.
Inutile dire che alla fine un vincitore c’è stato e, come previsto dal bando, è stato l’unico che, su sei candidati, aveva tali rare caratteristiche: Ambrogio Sparagna, già direttore dell’orchestra popolare della “Notte della taranta”.
Nessuno mette in dubbio le qualità del maestro romano che anzi, nel caso specifico, dimostra un grande attaccamento alla cultura musicale di Terra d’Otranto –non tutti percorrerebbero almeno seicento chilometri, di sola andata, continuando nel contempo a svolgere rigorosamente il proprio lavoro (nel caso specifico di dipendente della Regione Lazio) per intascare la somma di 2400 euro lordi, soprattutto alla luce del fatto che, il maestro, con un solo concerto, guadagna sicuramente molto più di quanto potrebbe guadagnare con questo Pon.
Quello che lascia perplessi è come l’Istituto comprensivo diretto dal dottore Luigi Martano, nello specifico caso, abbia sbarrato la strada a concorrenti meno noti in una maniera così originale, bandendo un concorso sparagnino –nel senso di esageratamente parsimonioso, non perché l’abbia vinto Sparagna- nella richiesta dei titoli d’ammissione.
L’unica cosa azzeccata della vicenda è la denominazione del modulo, “Fabbricante d’armonia”: suona bene per chi ha già le tasche piene ma è decisamente stonato per gli altri partecipanti al bando che, evidentemente, avevano voglia di fare esperienze d’insegnamento nello specifico ambito delle discipline etnomusicologiche.
Giovanni Lindo Ferretti affermò, durante una edizione della “Notte della taranta”, se non erro diretta proprio dal suo stesso Sparagna, che il popolo salentino non doveva vendere la propria primogenitura per un piatto di lenticchie.
Evidentemente, chi non è del Salento, non sa come stanno le cose: non si corre nessun rischio di vendersi per un piatto di lenticchie. Mortificati come siamo da una cultura clientelare le lenticchie se le sono già mangiate da un pezzo (assieme al piatto) e, se continua così, si finiranno pure le briciole.

                                                                                         Federico Capone